Serena Mancini

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Riparare l’irreparabile

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arte incontro

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Giovedì mattina ho partecipato a un incontro che non dimenticherò facilmente. La testimonianza di un percorso faticoso e straordinario, che per anni ha messo a dialogo Agnese Moro, figlia dell’onorevole Moro, e i responsabili del rapimento e dell’omicidio di suo padre e degli uomini della scorta.

Si chiama “Giustizia Riparativa” ed è “un processo in cui vittime e autori del reato, partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle conseguenze del reato, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. Si propone un percorso – attivo e faticoso – di rivisitazione delle memorie e delle circostanze del reato, del dolore e della colpa per andare, se possibile, verso l’incontro tra le parti “nemiche”.

Ho deciso di dedicare l’intera newsletter di questa settimana al racconto di ciò che ho ascoltato, perché è una testimonianza che costringe a “cambiare le lenti” con cui si guardano le relazioni.

È stata Eléonore a coinvolgermi (grazie!). Lei stessa era rimasta colpita dopo aver assistito alla testimonianza di Agnese Moro e di Adriana Faranda in Piazza Maggiore, un paio di anni fa. Sedute fianco a fianco come amiche, le due donne avevano dialogato a lungo pubblicamente, rivisitando i fatti apparentemente irreparabili di quegli anni durissimi e macchiati di sangue.

Questa volta Agnese Moro era in dialogo con Franco Bonisoli, ex membro delle BR dissociato dalla lotta armata, in un incontro moderato dalla giornalista Chiara Chiappini.

Ne riporto integralmente ampi dialoghi perché vorrei restituirti la forza viva che queste parole hanno avuto per me. Secondo me emanano un insegnamento prezioso: impegnarsi nella creazione di uno spazio dialogico, cercare e trovare un terreno di comune umanità, uno spazio in cui incontrarsi disarmati da ogni pregiudizio, è l’unico modo per rendere possibile l’incontro. Le narrazioni individuali allora possono dirsi, incontrarsi, intrecciarsi, scontrarsi ed essere accolte, fino a diventare un’occasione di profonda trasformazione per tutte le persone coinvolte nella relazione.

Buona lettura e buon weekend,
Serena


GIUSTIZIA RIPARATIVA
La testimonianza di Agnese Moro e Franco Bonisoli

Che senso hanno incontri come questo? E perché ho deciso di parlarne qui?

Provo a rispondere riportando le parole di Agnese Moro:

Persone come me hanno subìto una ferita irreparabile – nelle sue conseguenze – ma che può essere ‘curata’ proprio dall’incontro con chi si è reso responsabile di quella ferita. Durante il percorso di Giustizia Riparativa ho avuto la fortuna di aver avuto qualcuno che si è chinato sul mio dolore, che non ha avuto paura di guardarlo, di toccarlo.
E ho avuto la fortuna di avere altre persone – quelle che allora fecero cose irreparabili – che hanno avuto la bontà di venirmi incontro, disarmate dal mio dolore. Ho ricevuto tantissimo.

Questa esperienza mi ha permesso di ricordare il passato. Non soltanto nella sua parte di orrore, ma anche nella sua parte bella. Il passato era diventato il padrone della mia vita: un passato che non passa. Un passato che si ripeteva ogni giorno. Ogni giorno mio padre veniva rapito, le persone care della sua scorta venivano uccise, nessuno lo aiutava, alla fine uccidevano anche lui. Ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno.

Incontro dopo incontro, lo sforzo di calarsi attraverso la ricchezza del volto dell’altro nella realtà di un tempo che è passato, ha rimesso un po’ le cose al loro posto. Allora quella cosa orrenda è avvenuta, nessuno la può cancellare, però non ritorna oggi. E il passato smette di tiranneggiare la tua vita.

Durante il percorso, mentre si creano legami con l’altro, i ricordi della vita serena, della vita normale, della vita prima di quel momento tragico, si liberano del sangue di cui erano macchiati e ritornano ad essere quello che erano. Questa mia presenza oggi vuole essere un incoraggiamento alla possibilità di ricostruire una vita intera.

Agnese Moro

La portata di queste parole è stata deflagrante per me. Agnese sta dicendo che le parole, l’incontro, il dialogo, la possibilità di incontrare il volto dell’altro – del nemico – le hanno aperto l’unica possibilità di superare il dolore.
Non ha mai parlato, come mi sarei aspettata, di perdono. Ha parlato piuttosto di gratitudine: la sua verso i ‘nemici’ che le sono venuti incontro “disarmati”.

Come è possibile che sia proprio un nemico – il responsabile del male – a curare la ferita che ha causato?

Franco Bonisoli ha tratteggiato con la sua narrazione la cornice politica e ideologica che lo aveva convinto, a soli 19 anni, a lasciare tutta la sua vita per abbracciare la causa della lotta armata delle BR. Ha testimoniato come l’ideologia rivoluzionaria fosse così diffusa da essere come un vento che spingeva da dietro: chiedeva azioni concrete, richiamava a una responsabilità diretta in una lotta che vedeva nella distruzione di un mondo ritenuto ingiusto il presupposto imprescindibile per la creazione di un mondo migliore:

La mia adesione alla lotta armata era la conclusione di un processo guidato da una responsabilità: il bisogno di far coincidere ideali e azioni. Questo si è poi tradotto nei fatti che conosciamo dalle cronache: prima attentati alle cose, poi alle persone fino ad arrivare all’omicidio politico e quindi al concepire l’omicidio politico come una una cosa necessaria.
Il fine era buono, i mezzi diventavano necessari, si giustificavano.

Franco Bonisoli

Durante gli anni di carcere, Franco elabora progressivamente il suo vissuto nella lotta armata, lo rivisita e cade in una profonda crisi ideologica e umana. La crisi non si apre come conseguenza della durezza del regime carcerario, ma a seguito di incontri umani che gli regalano aperture inaspettate.

A un certo punto ho cominciato a pensare di aver rovinato la mia vita. E quella dei tanti compagni che avevo coinvolto in un sogno rivoluzionario che ormai dimostrava il suo fallimento. Ma soprattutto, tutte le “persone” che avevamo colpito cominciavano a diventare “persone”.

In una logica di guerra – lo si vede bene oggi anche con l’Ucraina – è necessario disumanizzare l’altra persona. Noi non vedevamo delle persone nei bersagli che sceglievamo di colpire. Vedevamo dei ruoli, delle funzioni, dei simboli. Erano il simbolo del male, del nemico e quindi andavano colpiti. E in questo processo di progressiva disumanizzazione tu non pensi più che lì ci sia una persona. Forse è un processo necessario per poter condurre un’azione di guerra. Quello però di cui mi sono accorto è che nel disumanizzare le persone che ritenevo ‘nemici’, avevo disumanizzato anche me stesso.

Nel disumanizzare tu abdichi alla tua umanità. Non te ne accorgi e arrivi al punto di non sapere più chi sei. Solo quando cominci ad andare in crisi ti viene addosso tutto. Quando le persone che ritenevi nemici cominciano a diventare persone, il peso delle azioni commesse diventa insopportabile.

Franco Bonisoli

Franco spiega poi l’importanza che hanno le parole in questo processo di riappropriazione della propria umanità e di quella dell’altro.

Con il gruppo (di Giustizia Riparativa) abbiamo fatto un grosso lavoro sulle parole. Lo stesso titolo del libro che racconta il nostro percorso (Il libro dell’incontro) dice delle cose importanti fin da subito: si parla di ‘incontro’ non di ‘perdono’. Le parole sono importanti.

Ho ricevuto la prima lezione sull’uso delle parole durante un convegno nazionale dei cappellani – i preti delle carceri: nel comunicato finale si parlava “della necessità del carcere per arginare certi fenomeni criminali, ma soprattutto della difesa della dignità umana delle persone detenute”. “Dignità umana” era una parola completamente nuova. Era del tutto nuovo essere chiamati “persone detenute” e non “criminali”. Questo mi incuriosì e allo stesso tempo rese la mia crisi ancora più profonda. La crisi era condivisa da alcuni compagni.

Dopo averlo snobbato per anni e anni, incontrammo il cappellano, informandolo che avevamo cominciato uno sciopero della fame. Era il nostro modo per assumerci la responsabilità di porre fine al movimento ideologico che avevamo iniziato e che aveva ormai dimostrato il suo fallimento.
Ci trovammo di fronte una persona preoccupata per noi. Non ce lo aspettavamo. Ancora una volta, era un’esperienza nuova.

E poi successe un fatto clamoroso. Il 27 dicembre, ormai ridotti in condizioni estreme da giorni e giorni di sciopero della fame, avevamo ricevuto la visita di Marco Pannella (il primo a creare una sensibilità sui diritti umani in Italia).

Era successo che il cappellano del carcere, don Salvatore Russo, uomo semplice ma estremamente determinato, aveva compiuto un’azione importantissima. Aveva dichiarato pubblicamente, inviando una lettera al Vescovo, che non avrebbe fatto celebrato la tradizionale messa di Natale adducendo come motivazione il fatto che sei suoi fratelli stavano morendo di fame in carcere.

Il discorso delle parole è fondamentale. Lui parlò di “fratelli”, mentre le prime pagine dei giornali ci tratteggiavano sempre come “criminali”. Lui in quel contesto – e parliamo di un contesto molto difficile – usò con grande coraggio la parola ‘fratelli’. Questa espressione fu addirittura ripresa da un giornale, facendo scoppiare uno scandalo di portata nazionale che diede avvio a una importante riforma del regime carcerario”.

Franco Bonisoli

Tornare a umanizzare. Prendersi la responsabilità. Incontro. Dialogo. Dignità umana. L’importanza delle parole.
Queste sono le tappe fondamentali del percorso di ritorno nel mondo per Franco.
Dopo aver assolto il suo debito con lo Stato – in forma ridotta a 22 anni di carcere – Franco si trova però di fronte a un problema di coscienza:

Quando sono tornato in libertà il pensiero costante era la possibilità di avere un dialogo di comprensione umana con le persone a cui avevo fatto del male. Le persone che lo desideravano naturalmente, senza dover forzare nessuna situazione. Cercavo l’opportunità di spiegare loro le circostanze e le motivazioni dietro alle mie azioni irreparabili, nella speranza che questo potesse alleviare il loro dolore. Dopo anni, nel 2009, questa possibilità c’è stata ed è iniziato un cammino.

Grazie a tre mediatori, ho potuto incontrare Agnese Moro a casa sua ed é stato un incontro importantissimo. I tre mediatori sono anche gli autori del “Libro dell’incontro”.

Io e Agnese abbiamo cominciato a incontrarci, ci siamo parlati con sincerità, scambiando parole che per qualcuno avrebbero potuto essere inascoltabili o indicibili. Nel tempo, il dialogo di comprensione umana è diventato qualcosa di più. È cresciuto fino a diventare un rapporto di reciproca conoscenza molto profonda, molto intensa.

Franco Bonisoli

Nelle parole di Franco e, poi in quelle di Agnese, si scorgono le tracce di una vicinanza autentica in grado di porre rimedio al male agito e subìto.
Provare a individuare una riparazione nell’ambito di questi processi di mediazione significa provare a lavorare per una trasformazione.

La trasformazione non riguarda il poter trasformare quello che è successo, perché un’esperienza di ingiustizia, una volta commessa, non può più essere cancellata. Quello che si può provare a fare è però trasformare il vissuto delle persone coinvolte. Significa uscire dalla tirannia di un passato che non passa e dalla gabbia dei ruoli. La trasformazione coincide allora con la possibilità di immaginare un futuro libero dal passato.

Ecco come Agnese racconta questo processo:

Molte persone si sono strette intorno a me dopo la scomparsa di papà. Però poi nessuno mi chiedeva: ‘Ma tu come stai?’
Capitava più spesso che mi salutassero commentando: ‘Oggi abbiamo incontrato la storia!’ Altre volte invece mi raccontavano cosa provavano loro. Era come ricevere un’eterna visita di condoglianze.
Tu però in tutto questo non ci sei. E non c’è spazio per il tuo dolore.

È stato questa considerazione a incoraggiarmi a intraprendere il percorso di Giustizia Riparativa. Mi sono resa conto molto presto che io stessa avevo disumanizzato i responsabili della morte di mio padre. Non erano solo loro ad aver disumanizzato mio padre: io stessa li avevo disumanizzati, bloccandoli in quel momento, ingabbiandoli nel ruolo dei nemici responsabili di quegli atti irreparabili.

Occorre ammetterlo: la disumanizzazione chiama la disumanizzazione.

La prima volta che ho incontrato Franco si è presentato a casa mia con una piantina fiorita. Mi divenne subito chiaro che stavamo parlando della vita, non stavamo parlando della morte. Quella la conoscevamo già. Ci incontravamo per la vita.

A quel punto per me è iniziata la possibilità di sgretolare la disumanizzazione e riparare quel passato.

Incontrare Franco mi ha fatto capire che l’umanità non va perduta. Neanche per chi l’ha fatta grossa.
Ho capito quanto sono importanti i tempi dei verbi. Sono stata…. Sono: in mezzo sono successe tante cose, c’è una vita intera.

Dopo aver incontrato Franco, ho incontrato anche gli altri. E ogni volta è stata una sorpresa.
Una delle più grandi è stata quella di incontrare il loro dolore. Il dolore che accompagna la realizzazione di aver ucciso delle persone e non dei simboli. Quel dolore è assolutamente superiore al mio. Per alcuni è un dolore irrimediabile.

Quel dolore si è fatto linguaggio, terreno comune.

Gli incontri mi hanno insegnato tantissimo. Più di tutto ho imparato dalla loro capacità di presentarsi a me completamente disarmati, pronti a ricevere e accettare qualsiasi tipo di reazione. È una lezione immensa.
Perché se tu vuoi ascoltare un’altra persona, entrare in contatto, o ti presenti disarmato o non la incontrerai mai. Arriverai davanti all’altro con tutte le tue rabbie, i tuoi pregiudizi, le tue certezze, e non potrai mai vederlo veramente.

Il loro presentarsi disarmati ha obbligato anche noi ad essere disarmati.

È stata una immensa ricchezza che ha permesso all’una e all’altra parte di vivere con intensità e con onestà un dialogo veramente difficile. Ogni parola è una ferita, ogni parola è uno schiaffo, ogni storia è un dolore, ogni passo è gigantesco, pesante, difficile.

E però quel guardarsi disarmati è ciò che permette di andare avanti. Tanto che si creano legami. Man mano che tu ascolti, man mano che tu hai la possibilità di dire certe cose – cose che nessuna giustizia penale ti permetterebbe di dire – la ferita guarisce.

Lo sai chi era mio padre per me? Lo sai che cosa mi hai tolto? Perché lo hai fatto?

Tu chiedi e l’altro ti ascolta. In un ascolto pesante, difficile da portare.

E io ti ascolto quando tu mi dici quali sono state le tue motivazioni. E posso rimproverarti.

Posso rimproverarti perché ti riconosco come un essere umano, come un fratello. Se non ti riconoscessi in questo modo non ti darei il potere di ascoltare le mie parole.

Però siccome si è creato questo ponte e siamo uno di fronte all’altro disarmati, siccome conosciamo entrambi la disumanizzazione – per averla entrambi data e subìta – allora io ti posso domandare, perché so che tu hai il coraggio e la forza di ascoltarmi. Perché c’è un luogo, una struttura – quella della Giustizia Riparativa – in cui tu puoi ascoltare le mie parole.

Questo conferma che il male non è eterno e non è definitivo. Il male non ha l’ultima parola.

Questa è una bella giustizia. L’unica in grado di restituirti qualcosa”

Agnese Moro


Se vuoi approfondire, ti lascio qui alcuni spunti:

Il libro dell’incontro – Vittime e responsabili della lotta armata a confronto
a cura di: Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato – Il Saggiatore


La notte della Repubblica – Sergio Zavoli (RAI Play)
Il link ai documentari-inchiesta di Sergio Zavoli che ricostruiscono le vicende di quegli anni.